Due anni fa, una madre disperata ha fatto l’impensabile: ha cacciato di casa suo figlio, sperando che quel gesto disperato lo costringesse a chiedere aiuto per uscire dal tunnel della droga. Ma quel piano è fallito miseramente. Da allora, suo figlio, appena 25 anni, vive per strada, intrappolato in una spirale di autodistruzione, e rifiuta ogni forma di sostegno.
“Mio figlio è malato. Da quando ha iniziato a drogarsi, è come se fosse un’altra persona. È diventato paranoico, non si fida più di nessuno, scatta per un nonnulla, distrugge tutto quello che trova. Ha un disperato bisogno di aiuto. Ma essendo maggiorenne, non posso fare nulla. Lui ha scelto di distruggersi, e io posso solo guardare da lontano.”
Queste le strazianti parole della madre, che parla con il cuore spezzato, mentre assiste impotente alla rovina del proprio figlio.
La donna ha deciso di raccontare la sua storia, prima in un gruppo Facebook chiamato Women for Women, e poi al Times of Malta
, chiedendo di rimanere anonima. La sua angoscia è esplosa quando ha visto una foto circolare sui social: mostrava un materasso sporco in un parcheggio e tra gli oggetti personali c’era una camicia, quella di suo figlio.
I problemi sono iniziati quando il ragazzo aveva 18 anni. Timido e riservato, ha cominciato a frequentare dei parenti che facevano uso di droghe. Presto ha iniziato a ordinare cannabis sintetica online, droga che, secondo gli esperti, è spesso associata a gravi problemi di salute mentale. Da quel momento, tutto è cambiato. Ha lasciato gli studi, ha preso un lavoro come fattorino e ha smesso di prendersi cura di se stesso.
“Era paranoico, anche con il cibo. Pensava che volessi avvelenarlo. Si chiudeva in camera e non voleva vedere nessuno. Un anno dopo, i suoi capelli hanno iniziato a cadere.”
La madre lo convinse a vedere una dermatologa, che subito notò i segni di una profonda depressione, ma il ragazzo rifiutò qualsiasi cura. Da lì, la sua rabbia esplose: urla, parolacce, oggetti distrutti in casa. La madre fu costretta a chiamare la polizia due volte, ma senza alcun risultato.
Nel frattempo, la situazione in casa diventava sempre più pericolosa. La sorella più giovane iniziava ad avere paura del fratello. La madre mise il ragazzo di fronte a una scelta: o cambiava, o doveva andarsene. “Gli ho offerto aiuto in ogni modo possibile. Ero disposta ad accompagnarlo ovunque, ma ogni volta mi dicevano la stessa cosa: non possono fare nulla se lui non chiede aiuto.”
Ma lui continuava a ignorarla, immerso nella sua rabbia e nel suo mondo di droga. “Alla fine, dopo averci pensato a lungo, ho preso la decisione più difficile della mia vita. Gli ho detto che doveva andarsene.”
All’inizio il ragazzo trovò rifugio dai parenti che lo avevano introdotto alle droghe, ma presto lo cacciarono anche loro. Da quel momento, vive per strada.
Sono passati due anni. Due anni di notti all’addiaccio, dormendo in campi, garage abbandonati o rifugi di fortuna. Mangia alle mense dei poveri e, di tanto in tanto, torna a casa per una doccia. Ma appena la madre gli offre di portarlo in qualche struttura per curarsi, lui esplode di rabbia. “Mio figlio chiede l’elemosina. Lo stesso ragazzo che non avrebbe mai parlato con uno sconosciuto, ora chiede soldi per strada. E quei soldi servono solo a comprare altra droga.”
Il senso di colpa la tormenta ogni giorno. “Mi sento in colpa perché sono arrivata a questo punto. Non ho trovato una soluzione per riportarlo a casa. Era un ragazzo senza una figura paterna, ed io ero sola. Ho pensato che se lo avessi cacciato, sarebbe tornato e avrebbe accettato aiuto. Ma non è successo. Mi distrugge sapere che è lì fuori, che questa è la sua scelta. Ma la droga è una malattia, e dovrei poter aiutare mio figlio malato, anche se lui non vuole il mio aiuto.”
Un barlume di speranza potrebbe arrivare da un ordine del tribunale. Il professor Anton Grech, presidente dei Servizi di Salute Mentale, spiega che un tossicodipendente spesso non è in grado di prendere decisioni razionali, e che a volte è possibile intervenire legalmente per costringere una persona a seguire un percorso di riabilitazione, purché non si violino i diritti umani. La legge prevede che, se c’è il sospetto che una persona soffra di gravi problemi mentali, questa possa essere ricoverata contro la sua volontà per un massimo di 24 ore per ottenere una diagnosi, su richiesta di un medico.
Foto: [Archivio Times Of Malta]