Donald Trump vuole un dollaro forte. Perché? Perché il presidente degli Stati Uniti non tollera la debolezza. Nella sua visione, un dollaro debole equivarrebbe a un segnale di fragilità personale e politica. Per un uomo che si considera il leader più potente del pianeta, l’idea stessa di debolezza è intollerabile. È questa la ragione per cui non ha esitato a scagliarsi contro i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), accusandoli di voler ridurre il dominio globale del dollaro. Come? Con una minaccia brutale: dazi del 100% sulle importazioni, qualora non abbandonassero immediatamente i loro progetti.
Eppure, Trump vuole anche un dollaro debole. Strano, vero? Ma un dollaro meno forte agevolerebbe le esportazioni americane e aumenterebbe i profitti delle multinazionali. Come può una valuta essere forte e debole allo stesso tempo? Questa contraddizione è il marchio di fabbrica di Trump. Alla fine, però, sembra che la sua preferenza vada verso un dollaro forte: i dazi, infatti, riducono le importazioni e mantengono alto il valore del dollaro, limitando la necessità di scambiarlo con altre valute.
Gli americani, inclusi Trump, vorrebbero anche tassi di interesse più bassi, che di norma indebolirebbero il dollaro. Ma le politiche del presidente, tra tagli fiscali e un deficit di bilancio in crescita vertiginosa (-6,7%), rendono inevitabile un altro scenario: tassi elevati, che continueranno a rafforzare il dollaro nel lungo termine.
Negli ultimi anni, la lotta contro l’inflazione ha fatto emergere un divario significativo tra i tassi statunitensi e quelli di altre economie globali. Questo ha reso il dollaro più forte rispetto a valute come lo yen, lo yuan, la sterlina e l’euro. E mentre l’inflazione globale si stabilizza, il vantaggio competitivo del dollaro sembra destinato a perdurare.
Il predominio del dollaro, tuttavia, non si limita ai tassi di interesse. È una questione di dimensioni. Oltre l’88% delle transazioni valutarie globali avviene in dollari, e il 75% delle banconote da 100 dollari circola fuori dagli Stati Uniti. Nessun’altra valuta può competere con questa portata. È un pilastro del commercio globale: petrolio, metalli, cacao – tutto si scambia in dollari. Persino il debito internazionale si basa su questa valuta, grazie alla liquidità e ai bassi costi di transazione del mercato obbligazionario americano.
Eppure, c’è stato un momento in cui si pensava che l’euro potesse rappresentare una valida alternativa. Dopo la sua introduzione nel 1999, l’euro superò rapidamente altre valute di riserva come lo yen e la sterlina. Ma senza un’autorità fiscale comune e con un sistema bancario frammentato, l’euro ha mostrato le sue fragilità. Durante la crisi finanziaria globale, il rischio di un collasso dell’euro era tangibile.
Perché il dollaro domina ancora? Perché le alternative sono ancora più deboli. La fiducia nel sistema statunitense – dal rispetto della legge all’indipendenza della Federal Reserve – lo rende un porto sicuro. La Cina, la seconda economia mondiale, è un esempio emblematico di questa dinamica. Il controllo statale sul capitale e l’interferenza del Partito Comunista cinese riducono la credibilità dello yuan come valuta di riserva.
Detto ciò, anche la fiducia nel sistema americano sta erodendo. L’indipendenza della Federal Reserve è sotto attacco, i controlli democratici si stanno indebolendo, e il diritto internazionale viene applicato a intermittenza, solo quando fa comodo. Inoltre, le politiche americane – dalle sanzioni agli embarghi – stanno alienando alleati e nemici. Tuttavia, nonostante queste crepe, il dollaro continua a regnare incontrastato, perché le alternative sono fragili e insignificanti.
Non è un caso se, mentre l’ordine globale vacilla, il dollaro rafforza il suo ruolo di unico rifugio sicuro. In un mondo sempre più segnato dal caos e dalla paura, il dollaro resta l’ancora di salvezza.
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