Un avvocato che si aspettava di incassare più di 100.000 euro per il suo lavoro, si è ritrovato invece a dover restituire ben 60.000 euro all’erede del suo cliente. Ma non è finita qui: la corte d’appello ha rincarato la dose, obbligandolo a pagare anche 1.000 euro per aver presentato un ricorso considerato “vessatorio e senza fondamento”.
L’incredibile vicenda vede protagonisti l’avvocato Johann Debono e Eugenio Bartolo, erede di Emanuel Grech. Debono aveva prestato assistenza legale a Grech per tre anni, ed era stato persino nominato esecutore testamentario nel 2010. Tuttavia, l’anno successivo, poco prima della morte di Grech, il testamento venne modificato e Debono non figurava più come esecutore.
L’avvocato sosteneva di aver avuto “innumerevoli e lunghe riunioni” con Grech durante quei tre anni, affermando di aver condotto “ricerche e studi approfonditi”
per fornire consulenza legale al suo cliente. Per questo, si sentiva in diritto di chiedere oltre 100.000 euro. Debono affermava inoltre di aver pattuito con Grech che sarebbe stato pagato in seguito, una volta nominato esecutore testamentario, con una commissione pari al 6% del valore del patrimonio.
Nonostante questa presunta intesa, l’avvocato cominciò presto a richiedere pagamenti anticipati. Anche se non vennero emesse fatture, Debono rilasciò ricevute non fiscali, incassando tra il 2009 e il 2011 ben 62.000 euro.
Alla morte di Grech, nel 2011, Bartolo – suo erede – chiese all’avvocato un resoconto dettagliato dei servizi prestati, reclamando il rimborso di fondi che, a suo dire, non erano dovuti. Non ottenendo risposte, Bartolo decise di agire per vie legali, chiedendo un rendiconto ufficiale e il rimborso delle somme non giustificate.
Sconcertante fu il comportamento dell’avvocato: ben sette anni dopo la morte di Grech, Debono richiese al cancelliere del tribunale di emettere un “dettaglio delle spese”, calcolato in 107.382 euro in base alle tariffe legali vigenti.
La corte, però, non si lasciò ingannare. Rigettò le richieste di Debono e gli ordinò di restituire i 62.000 euro già ricevuti. La giustizia si espresse in maniera dura: l’avvocato non riuscì a presentare “la minima prova”
dei servizi che sosteneva di aver prestato a Grech. Non c’erano fatture, documenti né alcun resoconto, e persino la dichiarazione delle spese venne presentata solo molto tardi nel processo.
La corte si chiese: “Se Debono affermava che sarebbe stato pagato dal patrimonio di Grech, a cosa servivano allora quei 62.000 euro versati quando il cliente era ancora in vita?”
Le motivazioni addotte dall’avvocato per giustificare tali somme apparvero subito inconsistenti: ore trascorse a parlare con Grech nel suo bar non furono sufficienti a dimostrare la natura professionale di questi incontri. Non c’era traccia di un accordo verbale che giustificasse i pagamenti né tantomeno la pretesa di ulteriori 100.000 euro.
Eppure, nonostante la sentenza, Debono decise di presentare appello.
La corte d’appello, però, confermò in toto la sentenza di primo grado, sottolineando che “un avvocato che si aspetta di essere pagato per i propri servizi ha il dovere di provare quali servizi ha prestato e in cosa consistessero”
. Sebbene fosse stato emesso un resoconto delle spese, la corte evidenziò che si trattava solo di un documento prodotto dal cancelliere su dichiarazioni fornite dallo stesso Debono.
Il tribunale andò oltre, affermando che il comportamento dell’avvocato “sfiorava l’incredibile”. Non solo Debono non aveva mai fatturato nulla a Grech per oltre due anni e mezzo, ma si era presentato ben tre anni dopo l’inizio del procedimento legale, cercando di far convalidare le sue pretese attraverso un semplice documento non ufficiale. Un atto considerato dalla corte “inaccettabile e irrispettoso”
nei confronti del processo giudiziario.
Come se non bastasse, la dichiarazione delle spese redatta da Debono, che copriva il periodo tra gennaio 2008 e settembre 2010, sembrava “del tutto artefatta”. Tra gli esempi più eclatanti citati dalla corte, spicca il mese di febbraio 2008: l’avvocato dichiarò di aver dedicato ben 61 ore di lavoro a Grech, una media di due ore al giorno, weekend compresi. La maggior parte di queste ore, tuttavia, risultava essere trascorsa nel bar del cliente. Una circostanza che lasciava pochi dubbi sulla veridicità delle sue affermazioni.
In conclusione, la corte d’appello, presieduta dal giudice Robert Mangion con i giudici Grazio Mercieca e Josette Demicoli, confermò che Debono non aveva alcun diritto di ricevere i 60.000 euro che pretendeva per quelli che definirono “servizi professionali fantasma”
.
Foto: [Archivio Times Of Malta]