L’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti ha scatenato un terremoto sui mercati finanziari, rafforzando il dollaro a livelli vertiginosi. In appena due settimane, la valuta americana ha toccato un massimo annuale, mantenendo una posizione dominante rispetto alle principali valute mondiali. Ma dietro questa impennata si nascondono tensioni che potrebbero stravolgere il commercio globale e ridisegnare gli equilibri economici internazionali.
Il dollaro, da decenni incontrastato protagonista del sistema finanziario globale, è stato al centro delle strategie di Trump. Non solo il presidente ha ventilato l’idea di dazi punitivi sulle importazioni, ma ha anche lanciato un chiaro avvertimento ai Paesi del gruppo BRICS: “Se proverete a creare una valuta rivale al dollaro, vi aspetta una risposta severa.”
Questa dichiarazione riflette la lotta per mantenere il dollaro come valuta dominante, una posizione che detiene dai tempi della Seconda Guerra Mondiale.
Il concetto di “dollarizzazione” non è nuovo, ma continua a giocare un ruolo cruciale. Dal Panama, che utilizza il dollaro come moneta ufficiale, fino al commercio di beni essenziali come petrolio e altre materie prime, il dollaro rappresenta il fulcro degli scambi globali. Ma cosa significa, in termini pratici, per il resto del mondo? Immaginate una transazione tra Cile e Malesia: invece di scambiare direttamente pesos cileni con ringgit malesi, entrambe le valute vengono convertite in dollari, semplificando e rendendo più economico il processo commerciale. “Il dollaro è usato in più del 50% delle fatture commerciali internazionali e in oltre l’80% delle transazioni valutarie globali.”
Eppure, questo scenario apparentemente stabile è minacciato dalle politiche “America First” di Trump, che potrebbero accelerare la fine del dominio del dollaro.
La dollarizzazione, infatti, porta con sé vantaggi e insidie. Da un lato, il continuo bisogno di dollari da parte delle altre nazioni mantiene alta la domanda, evitando pressioni al ribasso sul valore della valuta. Ma soprattutto, i dollari accumulati vengono investiti in titoli del Tesoro statunitense, fornendo agli Stati Uniti un accesso a finanziamenti a costi ridotti. “Quando un Paese compra dollari, in realtà sta prestando denaro al governo americano attraverso l’acquisto di titoli di Stato”
– un meccanismo che contribuisce a sostenere l’economia degli USA.
Dall’altro lato, però, un dollaro troppo forte aumenta il costo delle materie prime denominate in dollari, come il petrolio, e rende più care le esportazioni statunitensi, danneggiando i produttori locali. Questo paradosso ha alimentato discussioni sull’opportunità di un sistema multi-valuta globale, che, sebbene mai concretizzato, potrebbe ora guadagnare terreno con un eventuale secondo mandato di Trump.
Durante la sua prima presidenza, le riserve globali in dollari hanno mostrato un leggero declino, segno di un interesse crescente verso alternative. Tra queste, il gruppo BRICS ha proposto la creazione di una valuta parallela, forse basata sull’euro o sullo yuan cinese.
Le politiche economiche di Trump potrebbero ulteriormente spingere verso un cambio di paradigma. La riduzione delle regolamentazioni e delle tasse stimolerebbe la crescita interna, rafforzando ancora di più il dollaro. Ma un dollaro più forte comporta anche prezzi più alti per beni essenziali, come il petrolio saudita. I Paesi importatori potrebbero quindi iniziare a chiedersi: “Perché pagare in dollari sempre più costosi quando esistono altre valute?”
A ciò si aggiunge il rischio di un aumento vertiginoso del debito pubblico americano. Uno studio stima che i piani di Trump potrebbero aggiungere 15 trilioni di dollari al debito nazionale in un decennio, riducendo il valore delle riserve globali in dollari e spingendo alcune nazioni a ridurre la loro dipendenza dalla valuta statunitense.
I dazi, progettati per proteggere i produttori americani, potrebbero avere un effetto boomerang. Meno importazioni significano meno dollari in circolazione nei mercati valutari, rafforzando ulteriormente la valuta e annullando, in parte, gli effetti dei dazi stessi. Questo scenario spingerebbe inevitabilmente altri Paesi a cercare alternative per le loro riserve e per il commercio internazionale.
Ma cosa accadrebbe se il dominio del dollaro venisse meno? Un’uscita coordinata dei Paesi dal dollaro, con la vendita di titoli del Tesoro, farebbe impennare il costo del debito per gli Stati Uniti e precipiterebbe il valore della valuta. Le importazioni diventerebbero più costose, innescando un’inflazione pericolosa. Sul piano globale, il crollo del dollaro causerebbe una crisi economica devastante, aumentando i costi di transazione e svalutando gli asset denominati in dollari.
Nonostante tutto, il dollaro rimane ancora il fulcro del sistema economico mondiale. Tuttavia, le politiche “America First” di Trump e l’uso crescente del dollaro come arma politica potrebbero accelerare la ricerca di alternative, spingendo il mondo verso un futuro economico più incerto.
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